
Sebastiano Valfré nacque a Verduno,
piccolo borgo delle Langhe, nella diocesi di Alba, il 9 marzo 1629,
da umile famiglia che contava dodici figli e si procurava da vivere
con il lavoro dei campi: quando Vittorio Amedeo II lo volle proporre
nel 1689 come Arcivescovo di Torino, in considerazione delle
straordinarie qualità dimostrate in oltre trent’anni di ministero,
la modestia dei parenti, fatti venire appositamente nella Capitale,
servì a p. Sebastiano per sfuggire all’alto onore.
In una situazione di diffuso
analfabetismo, Sebastiano ebbe il privilegio di ricevere quel minimo
grado di istruzione che gli permise, a dodici anni, di seguire i
primi studi ad Alba, presso i Frati Minori Conventuali, e di entrare
poi nel seminario di Bra: dotato di intelligenza vivace, sotto la
guida di un rigido maestro, fece qui tanto profitto che, nel 1645,
ricevuti gli ordini minori, poté trasferirsi nella capitale dello
Stato Sabaudo per proseguire gli studi filosofici da esterno – e
mantenendosi col lavoro di scrivano – presso al prestigioso Collegio
dei Gesuiti ai Santi Martiri, frequentato in particolare dai nobili.
Fu ordinato sacerdote il 24 febbraio 1652 dal vescovo di Alba mons.
Paolo Brizio. Tre anni dopo, all’Università di Torino si laureò in
teologia.
Era entrato nel 1651 nella Congregazione dell’Oratorio di Torino,
sorta due anni prima e costituita, in quel momento, da un solo
padre, a causa della improvvisa morte del fondatore, il pio e
zelante sacerdote p. Pietro Antonio Defera, vero apostolo di
evangelizzazione. Senza lasciarsi scoraggiare dalla situazione
precaria della nuova Istituzione, insieme al confratello il Valfré
si diede all’apostolato, escogitando anche forme nuove: si recavano
in zone molto frequentate della città, il mercato del vino di Piazza
Carlina, ad esempio: p. Cambiani, che aveva una bella voce, cantando
radunava la folla, e Sebastiano, di ottime capacità oratorie e di
facili contatti con la gente, iniziava la predica; al termine dava
appuntamento per il giorno seguente.
Figlio di S. Filippo Neri, p.
Sebastiano amò la Comunità con tutto se stesso dedicandosi ai più
umili lavori e conducendo nel contempo, sulle orme del p. Defera,
un’azione apostolica che non cessa di stupire per la sua ampiezza e
per i frutti che ha prodotto.
Uomo di intensa preghiera, nutrito di contemplazione, attinse dalla
sua ottima preparazione intellettuale e dalla fervida esperienza
spirituale lo zelo della predicazione.
Chiamato incessantemente in conventi e monasteri, in chiese
parrocchiali ed in vari istituti di carità, mai rifiutò il suo
servizio. Ma il suo desiderio di annunciare la Parola del Signore lo
portò anche fuori da questi ambienti: alla scuola di Padre Filippo
aveva appreso il metodo del colloquio personale e della parola
pronunciata «alla semplice» – come ricordano i primi biografi –
nell’incontro con ogni genere di persone, per le vie e sulle piazze.
Fu apostolo del catechismo: tra i suoi scritti di valore, lasciò un
testo di catechesi che sarebbe servito alla Chiesa per molto tempo.
Consapevole di quanto danno portasse alla società l’ignoranza
religiosa, p. Sebastiano si adoperò in ogni modo a porvi rimedio. E
poiché tale piaga non era assente neppure tra il clero, accettò tra
il 1670 e il 1709 la nomina a esaminatore dei candidati della
diocesi agli Ordini sacri e alla confessione, e quella di
esaminatore nel Sinodo del 1670.
Come rettore della Compagnia della Dottrina Cristiana, per molti
anni vigilò sulle scuole di catechismo. Nel 1688 fu nominato
consultore e assistente dell’Inquisitore, con licenza di leggere i
libri messi all’indice: le sue osservazioni erano tenute in grande
conto, visti i rapporti di apostolato che aveva con i protestanti.
Fu consigliere di vescovi e cardinali che gli sottoponevano i
decreti sinodali prima della stampa.
Tanta era la stima di cui godeva in Città e a Corte, che la Reggente
Giovanna Battista gli affidò l’educazione del figlio Vittorio Amedeo
II, dando così inizio ad un rapporto di confidenza e di affettuosa
amicizia che sarebbe durato per tutta la vita, mai intaccato dalla
personalità complessa del Sovrano, spesso divergente rispetto agli
insegnamenti morali del Beato: la fitta corrispondenza lo
testimonia, come lo testimonia la decisione di affidare al Valfré la
cura spirituale delle Principesse Reali Maria Adelaide e Maria Luisa
che rimasero in rapporto con il Beato anche dopo essere andate
spose, la prima a Luigi Duca di Borgogna, la seconda al Re Filippo V
di Spagna: i loro scritti a lui indirizzati rivelano la delicatezza
d’animo delle due principesse e i frutti della profonda formazione
ricevuta; le risposte di p. Valfré sono autentici gioielli di
direzione spirituale.
Tale dedizione al ministero sacerdotale potrebbe indurre a pensare
che restasse a p. Sebastiano poco tempo per altre attività. Egli,
invece, si presenta non meno eccellente come apostolo della carità.
Consigliere tra i più ascoltati del Sovrano, a cui ricordava anche
per iscritto che la giustizia deve precedere la carità, il Beato
esercitò una profonda influenza sulla società sabauda in un’epoca
travagliata dalle guerre del Monferrato, dallo scontro con la
Francia in seguito all’adesione sabauda alla Lega di Augusta
(1690-1696), dalla guerra di successione spagnola, da conflitti
giurisdizionali, dai rapporti difficili con i Valdesi e con gli
Ebrei.
Nelle complesse vicende di conflitto istituzionale che spesso
opposero la Corte Sabauda alla Sede Apostolica, p. Valfré si rese
conto anche della impellente necessità che i Rappresentanti
pontifici fossero ecclesiastici formati nello spirito, oltre che
culturalmente, e prese l’impegno di suggerire a Clemente XI,
attraverso il confratello orato-riano cardinale Leandro Colloredo,
la fondazione di una Scuola di formazione che pre-parasse il
personale diplomatico della Chiesa: la Pontificia Accademia
Ecclesiastica non ha dimenticato l’opera del suo ispiratore, e lo ha
ricordato anche in occasione del III centenario di fondazione,
solennizzato il 26 aprile 2001 con una grande celebrazione nella
Basilica Vaticana .
Padre dei poveri, nel contatto diretto con essi il Valfré conobbe i
problemi e le necessità della società; fu attivamente partecipe di
tutte le iniziative di bene che in Torino fiorivano, ma fu
soprattutto la cura che personalmente dedicò alle numerose
situazioni di immediato bisogno ad attirargli il cuore della Città:
quante volte fu visto – e sono i soldati di ronda a darne
testimonianza – passare durante le notti per le strade a caricarsi
sulle spalle poveri cenciosi per condurli in qualche ricovero, o
salire furtivamente le scale di misere case per depositare davanti
alla porta pacchi di viveri e di indumenti. Non vi fu categoria di
bisognosi in Torino che non abbia ricevuto il suo aiuto concreto.
Per i malati e i bisognosi passò tra le sue mani un fiume di denaro
che egli distribuiva con larghezza, anche visitando regolarmente
l’ospedale di S. Giovanni Battista che, oltre alla cura dei malati,
prestava assistenza anche ai trovatelli. Non mancavano alla sua
attenzione nemmeno le ragazze costrette di notte a prostituirsi per
le strade; e ne salvò un grande numero. Visitava regolarmente le
prigioni, passando sovente dalle stanze sfarzose della Corte alle
celle dei carcerati, per educare i quali a sopportare con pazienza
le tribolazioni, nel ricordo delle sofferenze patite da Cristo e
fissando lo sguardo alle realtà ultraterrene, compose nel 1677 gli
Esercizi cristiani proposti ai carcerati. Particolare dedizione,
come membro della Arciconfraternita della Misericordia, esercitò
nell’opera di confortare i condannati a morte.
La carità pastorale lo indusse anche ad intraprendere con i Valdesi
e con gli Ebrei un rapporto sincero, di cui essi gli furono grati.
Esercitò con immenso zelo il ministero sacerdotale anche in quelle
che considerava le “cittadelle spirituali”, i monasteri di clausura,
aiutati spesso da p. Valfré anche nelle loro necessità materiali.
Tra le monache che si distinsero in quegli anni e con le quali il p.
Sebastiano ebbe un rapporto privilegiato, merita un cenno la
cappuccina biellese Amedea Vercellone (1610-1670), ma privilegiato,
in modo tutto speciale, fu il rapporto con la Beata Maria degli
Angeli (1661-1717), che consacrò l’intera sua esistenza nel Carmelo
torinese di S. Cristina, dove, per lunghi anni, fiorì vicendevole il
colloquio dei due Beati sulla vita spirituale e sulle scelte
riguardanti le cose temporali.
L’avvenimento più famoso che lega il loro nome è l’assedio posto a
Torino dall’esercito francese.
In quei terribili mesi, p. Valfré e madre Maria degli Angeli
collaborarono a mantener viva la speranza: l’oratoriano tra la gente
e i soldati, stremati e sfiduciati, annunciando ciò che la
carmelitana gli aveva confidato: «La Bambina sarà la nostra
liberatrice»; la monaca pregando incessantemente davanti al
Santissimo Sacramento, mentre proprio di fronte al monastero era
allestito un ospedale da campo dove p. Sebastiano quotidianamente
portava conforto ai feriti.
La fiducia e la stima che i due religiosi godevano a Corte e nel
popolo furono fondamentali per la resistenza della Città, dove la
fame, la paura, la disperazione serpeggiavano, e dove p. Sebastiano,
di giorno e di notte, instancabilmente presente, ripeteva con la
certezza della fede e con la profezia della santità: «Coraggio, per
il giorno della Bambina Torino sarà liberata».
Il 26 agosto i Francesi sferrarono l’attacco che pensavano
risolutivo: le vittime dall’una e dall’altra parte non si contarono,
ma la Città non cadde. Il giorno d’inizio della novena per la festa
della Natività di Maria, essi riuscirono a penetrare in una galleria
del complesso difensivo che portava al cuore della cittadella:
l’assalto fu sventato grazie al caporale Pietro Micca che,
sacrificando la propria vita, provocò il crollo della galleria
impedendo al nemico l’accesso: era uno dei soldati che p. Valfré
istruì sul valore del sacrificio.
Tra il 3 e il 4 settembre il principe Eugenio, alla testa di 28.000
uomini, giunse ai piedi della collina torinese e si unì alle truppe
di Vittorio Amedeo; il 7 settembre una strepitosa vittoria salvò
Torino. Era la vigilia della festa della nascita di Maria, e la
Città «per il giorno della Bambina» si trovò libera.
In onore della Vergine, per voto ispirato da p. Valfré al Sovrano,
si innalzerà a Maria il maestoso santuario sul colle di Superga che
veglia sulla Capitale Sabauda. Ma il cuore di Torino cattolica, più
che in quel magnifico tempio, rimarrà tra le case della gente, nel
santuario della “Consolà”, sulla cui facciata, accanto alla statua
di san Massimo, primo vescovo, i Torinesi vollero quella di p.
Valfré, il loro p. Valfré, che con il suo sorriso e con quella
barbetta spagnolesca – priva, sul suo volto, di ogni orgoglio –
ancora accoglie chi entra nella Casa di Maria, amata dall’anima
torinese come lo scrigno delle memorie più care.
Intensa fu pure la devozione di p. Valfré alla Sacra Sindone,
insigne memoria della Passione del Signore, parlando della quale
egli affermava: «La croce ha ricevuto Gesù vivo e ce lo ha
restituito morto; la Sindone ha ricevuto Gesù morto e ce lo ha
restituito vivo».
Nel 1694, a motivo del trasferimento della Reliquia dalla cappella
dei Ss. Stefano e Caterina nella nuova sontuosa cappella
appositamente eretta dal Guarini nel Duomo torinese, a p. Valfré fu
chiesto dai Sovrani di sostituire i veli vecchi e consunti di
supporto che le clarisse di Chambery avevano posto: il 26 giugno
egli li ricucì rinforzando i rattoppi e i rammendi con tanta
commozione che, come era avvenuto anni prima a san Francesco di
Sales, alcune lacrime gli caddero sul Lino e lo bagnarono. Vittorio
Amedeo II volle che il padre sfilasse alcuni corti fili e glieli
consegnasse per conservarli in un reliquiario d’oro a forma di cuore
che il Sovrano portò sempre con sé .
A numerose altre Ostensioni del sacro Lino p. Valfré aveva potuto
assistere: nel 1661; nel 1663 in occasione del matrimonio del duca
Carlo Emanuele II con Francesca d’Orleans, nipote di Luigi XIV; nel
1664, in occasione del passaggio a Torino del p. Domenico di S.
Tommaso, figlio primogenito del Sultano Ibrahim e della Sultana
Zafira, nato con il nome di Osman; nel 1665 in occasione del secondo
matrimonio del duca Carlo Emanuele II con Maria Giovanna Battista di
Nemours; nel 1668; nel 1672; nel 1674 “per solennizzare con la
solita Pietà e Devozione la Festa della SACRATISSIMA SINDONE, alli 4
maggio”; nel 1683; nel 1685 per commemorare il matri-monio celebrato
l’anno prima del duca Vittorio Amedeo II con Anna d’Orléans, nipote
di Luigi XIV; nel 1706, in occasione del trasporto a Genova per
sottrarre la Sindone ai Francesi che si accingevano ad assediare
Torino; il 2 ottobre successivo per il ritorno della reliquia in
Città.
L’Archivio della Congregazione torinese conserva copia di una
“Dissertatione Istorica della SS.a Sindone che fondatamente si
giudica composta e dettata dal Beato Sebastiano Valfré Indirizzata
alle principesse figliuole del Duca Vittorio Amedeo II, poscia re di
Sardegna”.
Luminoso tramonto
i può affermare che ogni giornata di p. Valfré, fino all’estremo,
sia stata un atto di amore a Dio e ai fratelli.
Si spense, ottantenne come il suo padre san Filippo Neri, il 30
gennaio 1710 nella sua piccola camera, ingombra delle carte di
studioso e piena di imballaggi di vestiario e di viveri per i
poveri, amati e serviti da p. Valfré con la dedizione di un servo
fedele.
Anche l’ultima malattia fu fervida testimonianza della sua fedeltà
agli impegni a cui aveva dedicato la vita: il 24 gennaio, dopo aver
tenuto il sermone alle monache di S. Croce, visitò le carceri,
nonostante il freddo pungente, per confortare un condannato che il
giorno seguente sarebbe stato giustiziato, e corse alla preghiera
della Comunità, giungendovi sudato. Passò la notte infastidito dalla
tosse, ma il mattino seguente volle celebrar la Messa attendendo che
altri prima di lui officiassero. Dopo aver confessato, come al
solito, diversi penitenti, sfinito tornò in camera, quando ormai la
febbre era molto alta, e chiese con garbo di poter restare solo, per
pregare.
La notizia della gravità della malattia si diffuse in un baleno e la
Città tutta innalzò suppliche per la guarigione.
Tutti avrebbero voluto avvicinarsi al capezzale e baciare quelle
mani che tanto bene avevano compiuto. Vittorio Amedeo II in quei
giorni si confessò e comunicò alla Consolata e andò due volte a
visitare l’infermo. Nell’ultima visita, mentre gli baciava la mano,
ricevette l’ultimo consiglio: «Vostra Altezza compatisca e cerchi
sollevare le miserie de’ suoi sudditi da tanto tempo oppressi da
lunghe guerre, procuri di intendersela sempre e di stare unito col
Sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo».
La sua salma, esposta nella chiesa, attirò tutta Torino che voleva
ancora salutare quel prete che per sessant’anni aveva percorso le
strade e le piazze della Città facendo il catechismo e sollevando
ogni genere di povertà, con la stessa dedizione con cui a Corte
svolgeva l’ufficio di confessore della Real Famiglia, e nelle
carceri, negli ospedali, nella cittadella e sui bastioni, durante
l’assedio, infondeva coraggio e testimoniava la carità del
cristiano.
Tutti volevano un ricordo, una reliquia, o almeno la possibilità di
posare per l’ultima volta posare lo sguardo su quel volto caro, le
cui rughe testimoniavano le fatiche innumerevoli e il cui sorriso
aveva confortato tanti cuori.
Il Sovrano disse: «Io ho perduto un grande amico, la Congregazione
dell’Oratorio un grande sostegno, i poveri un gran protettore e
padre».
L’apostolo del Piemonte aveva realmente speso tutto se stesso per il
Signore, servendo chiunque avesse incontrato con una qualsiasi
necessità, spirituale o materiale.
Aperto il processo canonico dieci anni dopo la morte, il 15 luglio
1834 Gregorio XVI iscriveva il grande sacerdote nell’albo dei Beati.
Il suo corpo riposa in S. Filippo di Torino, sotto l’altare della
cappella a lui dedicata.

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